La menzogna delle grandi opere senza un progetto di sviluppo

In una lettera aperta al segretario del suo Partito, Piersanti Mattarella riflette sulle incertezze dello sviluppo del Mezzogiorno a partire dai dati SVIMEZ del ’77. Ne risulta una forte denuncia di un modo distorto di pensare al Mezzogiorno e un appello al Partito per un rinnovato impegno che risultano oggi ancora attuali. Basti anticipare questi elementi: la tendenza di pensare per il Sud e la Sicilia un ruolo subalterno di servizio di altre aree produttive; un sistema economico che tende ad avvantaggiare esclusivamente l’area più ricca quando questa fa registrare risultati positivi; la promessa di opere grandiose, come il ponte sullo stretto, per mascherare la pesante carenza di un programma di sviluppo.

Palermo 14 luglio 1978

Caro Zaccagnini, 

Taluni dati ed elementi di fatto emersi in questi ultimi tempi sul Mezzogiorno, ai quali ho avuto modo di dedicare maggiore attenzione in questi brevi ma intensi mesi alla guida della Giunta regionale siciliana, mi inducono a sottoporti alcune considerazioni, a mio avviso meritevoli di approfondimento, sulla scorta delle quali riterrei opportuno una ripresa dell’iniziativa politica del Partito.

Il rapporto SVIMEZ sull’economia del mezzogiorno nel 1977, presentato a Napoli alla fine di giugno, ha messo in evidenza ancora una volta una serie di dati negativi, il primo dei quali riguarda la caduta degli investimenti che, in termini reali, hanno fatto registrare un calo dello 8,8% rispetto all’anno precedente, che si sovrappone, direi, alla flessione del 12% già registrata l’anno scorso.

Dall’insieme dei dati del rapporto è possibile verificare l’effetto perverso della duplicità del sistema economico italiano, per cui allorquando l’area più ricca fa registrare risultati positivi essa se ne avvantaggia esclusivamente, scaricando invece sull’area più povera i risultati negativi, anche in termini di preoccupata e vigile tutela dell’esistente, nel momento in cui il processo di sviluppo subisce battute d’arresto. 

Nel frattempo, pur nella constatazione degli insuccessi e dei ritardi, non può farsi a meno di registrare con il rapporto SVIMEZ che non esiste alternativa all’industrializzazione se si vuole veramente perseguire l’adeguamento del Sud al Nord: giacché anche se in termini reali il reddito pro capite al sud dal 1951 ad oggi si è quasi triplicato, esso rappresenta pur sempre il 60% di quello medio del centro Nord contro il 57% registrato nel ’51; perché l’effetto moltiplicatore della politica meridionalista in tutti questi anni non è andato oltre i tre punti l’incremento nel recupero della famosa forbice.

Certo il volto del mezzogiorno è molto mutato e il problema meridionale si è andato trasformando da questione contadina a questione cittadina: se nel 1950 le città meridionali superiori a 100.000 abitanti erano solo otto con una incidenza complessiva sulla popolazione meridionale di 1/6, oggi esse sono divenute 14 con un’incidenza di 1/4, pari quindi al 25% dell’intera popolazione meridionale.

Ma questo è solo l’effetto dell’andamento contraddittorio e disordinato dell’unico comparto che ha fatto da settore trainante dell’economia meridionale in questi anni. Mi riferisco ovviamente l’edilizia che ancora nel ’77 ha assorbito ben 700.000 addetti al Sud e che, da attenti calcoli effettuati, da luogo ad un’occupazione indotta che per il Sud è calcolabile in oltre 550.000 unità. Si tratta però di un settore che ha privilegiato l’edilizia privata più costosa al cui nascere e al cui svilupparsi, non sempre ordinato né gradevole, non si è accompagnata un’attenta politica urbanistica né adeguate risposte alle richieste di servizi civili ed infrastrutture urbane; abbiamo così potuto registrare il degrado delle condizioni di vita civile in tutto il mezzogiorno. Sicché in atto le ultime le speranze di questo comparto, il cui andamento non può però continuare ad essere lasciato totalmente svincolato da limiti, restano legati all’equo canone (del quale non vanno taciuti però i possibili negativi effetti sul reddito di pura sopravvivenza quali molti di quelli percepiti al sud) ed al piano decennale della casa da tempo all’esame del Parlamento.

Nella generale flessione degli investimenti produttivi fa spicco, occorre dirlo con molta chiarezza, la carenza di quelli pubblici. Basti pensare che nel ’77 gli investimenti delle Partecipazioni statali, pur essendo cresciuti, sia pure di poco, in tutto il Paese, hanno fatto registrare una flessione del Mezzogiorno, con quali effetti ai fini del riequilibrio non è difficile immaginare. ed infatti tali investimenti pur essendo passati nel ’77 nel complesso da 3.594 miliardi a 3.719 miliardi, sono invece diminuiti, per quel che concerne il Mezzogiorno, sempre nel ’77 da 1.164 miliardi a 1.069 miliardi. Credo che giovi qui ricordare che una legge dello Stato, certo tra le più violate, obbliga gli Enti a partecipazione statale riservare al mezzogiorno almeno il 60% degli investimenti.

Ma vi è un passo del rapporto SVIMEZ che desidero riportare per intero: «Nel dibattito che da qualche tempo si svolge nel nostro Paese tutto sembra messo in discussione: talvolta esplicitamente, più spesso con silenzi significativi. L’industrializzazione? Meglio non pensarci nell’attuale crisi, non certo congiunturale, dell’economia mondiale. L’intervento straordinario? Si vedrà se continuarlo dopo il 1980. Le agevolazioni finanziarie? Basta con l’assistenza. L’impresa a partecipazione statale? Non si estenda più; si perde troppo. Il programma? Nel nostro Paese non è possibile».

Come vedi tutte critiche che possono anche contenere taluni elementi di verità ma che fanno sbrigativamente giustizia di tanti strumenti che costituiscono bene o male un sistema, senza che né il problema sia stato risolto né siano stati trovati rimedi diversi e più efficaci.

A ciò si aggiungono proprio in questi giorni le polemiche sull’efficacia della Cassa per il Mezzogiorno alla vigilia di un probabile nuovo mutamento di vertici come sbocco, non certo risolutivo, di taluni ritardi, disfunzioni e confusione di ruoli, purtroppo registratisi nella concreta applicazione della “183”. Il quadro programmatico che questa legge delinea si è realizzato nelle enunciazioni del Piano quadriennale varato l’anno scorso, ma non si è collegato, come auspicabile, con la spesa statale in genere e in particolare con la legge “675”, a proposito della quale si registrano le cocente delusioni connesse ai piani di settori, che non sembra potranno mutare di molto la realtà che ne formano oggetto ma è che anzi delineano non rilancio, sia pure attraverso riordini, dell’industria bensì una sua compressione.

Proprio da uno di questi piani ho potuto trarre un altro significativo esempio che viene da un settore dell’industria pubblica che ha segnato negli anni recenti una notevole trasformazione delle sue strutture che è quello elettronico della telefonia. Ebbene l’occupazione di questo settore, di complessive 47.000 unità circa, è presente al Sud con 14.000 unità pari al 30%. Se però si guarda all’interno di questo ultimo dato ecco che è possibile scoprire un elemento significativo. Un’industria così tecnologicamente impegnativa, compensativa almeno in teoria della larghissimo disoccupazione intellettuale al Sud, esclude, tranne presenze numericamente e percentualmente irrilevanti strettamente indispensabili per il funzionamento degli impianti, ogni occupazione a livello dirigenziale, ne consente una quota assai ridotta (17%) a livello impiegatizio, sostanzia la propria presenza occupazionale nel Sud con un 83% di operai. Nel Nord invece la presenza operaia e del 60% circa cui corrisponde un 40% di impiegati e dirigenti. Il che conferma e rafforza l’ipotesi di coloro che sostengono che l’industria nel Mezzogiorno non ha cessato finora di costituire un fatto meramente esecutivo di ordini elaborati altrove, un’industria cioè con il cervello nel Nord del Paese.

Il Mezzogiorno, e in esso la Sicilia, vive dunque momenti assai difficili e drammatici della sua storia, attanagliato fra le difficoltà di una cultura minacciata non troppo alla lontana dalla prospettiva dell’allargamento della Comunità europea che, se ci trova pienamente consenzienti sul piano politico, non può però non imporre adeguata attenzione per limitare le preoccupazioni sul piano della concorrenza, non solo agricola.

Il sistema industriale siciliano (come peraltro quello sardo) sconta con la crisi chimica errori commessi in sede di programmazione nazionale allorquando si consentirono quelle ubicazioni delle quali però non ero stati sufficientemente approfonditi i problemi di mercato e quelli ambientali. 

Nel frattempo, va ribadito con chiarezza, da parte dello Stato si prosegue con atteggiamenti e provvedimenti che assai poco hanno a che vedere con quella coerenza meridionalista da tanti per tanto tempo auspicata. Si prosegue cioè in atteggiamenti certamente non accettabili che consentono di varare provvedimenti come la ristrutturazione finanziaria delle imprese e la parziale fiscalizzazione degli oneri sociali, che finiscono per sottrarre risorse al mezzogiorno per destinarle ancora una volta al recupero e rafforzamento della parte più forte del Paese, perpetuando nei fatti quella politica dei “due tempi” che ha condannato e continua a condannare il Mezzogiorno. Persino le innovazioni legislative in materia di finanza locale si traducono nel fatto in un diverso trattamento tra enti locali, naturalmente con svantaggio per quelli del Mezzogiorno.

Emblematica di questa filosofia mi pare poi la vicenda del ponte sullo stretto di Messina, tema caro alla classe dirigente siciliana in altri tempi e sempre respinto come fantascientifico. prima che oggi ci vediamo rispolverare da una accorta campagna di stampa, fino ad un convegno nazionale dei Lincei, che presenta l’esecuzione di tale opera quasi come risposta e contropartita alla richiesta dei posti di lavoro nel Sud. Non vorrei che questa realizzazione, ammesso che venga fatta ed in ogni caso senza apporti finanziari della regione siciliana, finisca per diventare l’ennesima cattedrale nel deserto, la cui grandiosità dovrebbe servire a mascherare altre più pesanti carenze. Altro sarebbe poter valutare un’opera di tale consistenza in un contesto programmato di sviluppo, che logicamente andrebbe avviato preliminarmente.

Ancora una volta quindi, consentitemi di dirlo, si tende a privilegiare per il Sud e la Sicilia un ruolo francamente subalterno ad interessi che non sono nostri ed a continuare a farci funzionare solo del mercato, e non da area produttiva, al servizio piuttosto di altre aree produttive.

Si tratta in definitiva di un’opera che, proprio perché grandiosa, non è consona nel momento in cui viene prospettata (il Sud paga gravemente la netta caduta della spesa pubblica) né ai luoghi in cui essa sorgerà, bisognosi piuttosto di opere corrispondenti ad esigenze ancora primarie. Basti pensare a quest’ultimo riguardo che recenti dati dell’Istat rilevano che il consumo giornaliero di acqua per abitante nel Mezzogiorno è di 137 litri, contro i 345 del Nord; vale a dire che il dato riguardante il Sud si aggira intorno al 50% del corrispondente dato per il Nord.

Il problema del Mezzogiorno ed il peso per la sua sopravvivenza a carico dell’intero paese, che non può più a lungo essere sopportato, impone il superamento di ogni logica meramente congiunturale o dei cosiddetti “due tempi”. Infatti se è vero che il costo che la situazione del Mezzogiorno, che consuma più di quanto produce, fa gravare sull’economia nazionale non è a lungo sopportabile e non solo per motivazioni economiche, è altrettanto vero che l’altro rimedio, quello di comprimere il livello di vita del Sud, sarebbe tragicamente un rimedio peggiore del male. Ciò non solo perché i livelli di vita del mezzogiorno sono ormai al limite ultimo dell’accettabilità ma anche perché tensioni sociali e politiche risulterebbero riacutizzate ed assai pericolose.

Queste considerazioni ho ritenuto di doverti sottoporre, caro Zaccagnini, affinché le faccia oggetto di riflessione, ripeto, nella prospettiva di una ripresa dell’iniziativa politica del Partito su questi temi, da affrontare con grande concretezza e al di là di schemi o formule.

Il partito prima di altri deve superare la logica presente anche in taluni atteggiamenti del nostro ufficio economico che considera quello del Mezzogiorno come un problema isolato o da isolare rispetto alle grandi scelte economiche. È invece una politica nazionale che è necessario proporre; è il saper cogliere appieno l’interesse di tutto il Paese e degli stessi operatori economici del Nord; è il rimediare strutturalmente ai divari esistenti, il risultato che il partito deve conseguire. 

È a questo scopo che ti chiedo di convocare su questi temi stessi una apposita riunione della Direzione del partito ove essi potranno essere discussi e approfonditi, anche al fine di valutare la sede, i tempi e le responsabilità per delle precise proposte che la Democrazia cristiana hi il dovere di fare perché le promesse, i propositi, gli atti compiuti siano realmente determinanti di una svolta positiva nel cammino del Paese per il Mezzogiorno. 

 

Un ringraziamento a Vittorino La Placa, che nel corso dell’incontro “Mattarella, l’innovatore” del 5 gennaio 2021, ci ha segnalato questa lettera, pubblicata in Piersanti Mattarella. Scritti e discorsi  dall’Assemblea regionale siciliana.

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